Racconto in rima a due voci
Scritto per
l’associazione Tyrrhenum in occasione della festa medievale nel giugno
duemilaundici
Dal codice Urbinate Vaticano 1056
Nel
dì dell’11 di maggio
nell’anno
del Signore 1588
riporta
il
codice Urbinate Vaticano
dell’
infelice avvenimento
di
uomini crudeli
e
delle loro insane gesta.
Sto per raccontarvi
infatti
di Assan Agà
pirata sanguinario
il capo dei suddetti
ceffi
che per mantenere
di terrore il clima alto
con numero sette
di galee algerine
assalì
sulla romana costa
il territorio di Civitas
Patrica.
Pirati
e
pure brutti e infami
che
miravano a reprimere
i
giovani entusiasmi popolari
di
chi d’allegrezza esultava
per
ciò che sotto sotto
da
un po’ di tempo
da
quelle parti
si
vociferava.
Imminente
a quanto pare era
la costruzione della
flotta pontificia
ma mala fu la loro fede
che approfittando del
contesto
agirono ancor prima che
il Lercari
luogotenente generale della squadra
fosse pronto per salpare.
La
storia narra infatti
che
nella notte tra l’8 e il 9 maggio
nell’anno
del Signore 1588
Assan
il sanguinario
insieme
a 200 pirati algerini
approdò
sulla costa della Roma ignara
che
senza tutela alcuna
nell’oscurità
serena
riposava.
Per compiere così
il vile misfatto
chi di professione
faceva scempio e
prepotenza
di soppiatto
violentò il cuore caldo
della terra ferma.
Coperti
dalla notte
nel
borgo addormentato
giunsero
i vili malfattori
e
grande fu il dolore e lo sgomento
per
quei pochi levatisi in piè
per
contrastare
il
nero delle gesta
dei
suddetti ceffi.
E mentre i paladini
perfino nella chiesa
morivano trucidati
ignobili furono le
brutture
che si contarono
per mano dei pirati.
Senza
pietà alcuna
più
o meno centocinque
tra
maschi e femmine catturarono
rubando
gioia e vita
al
borgo deturpato.
Trentanove
gli uomini
e
ventinove donne
ma
anche trentacinque
tra
i lavoratori stagionali
furono
coloro i quali
mai
più fecero ritorno.
Tacendo con tenacia
sull’infame sorte
che invece li attendeva
imbastirono i pirati
ulteriori inganni
ai sudditi del Borghese
il principe
adesso sventurati.
E
come se fosse
tutto
quanto vero
“Su, lungo
il Tevere…”
gridavano
mentendo
“alle vigne della grande Roma”
magnifico
il luogo
dove
“dicevano”
li
avrebbero portati
come
se fossero
amici
del Giulio
er
Sommo Pontefice
e
non invece
i
miseri qual’erano!
E fu così
dopo l’atroce lutto
che fu anticipata
l’ultimazione
del sistema difensivo lungo
le coste.
Torri
che
sulla azzurra riva
s’alzarono
di gran fretta
come
quella del Vajanico
che
da quel dì
il
nome diede
alla
terra che
di
pianto sabbia e vento
tutt’intorno
si estendeva.
*********
Ma
dopo questa novella
di
morte
e atroce
sofferenza
desidero
per lor signori
narrare
quella a lieto fine
della
dolce giovinetta
che
quel dì
del
triste maggio
dal
bosco fu salvata.
Lei che con la natura
ci andava assai d’accordo
meglio sicuramente
di qualsiasi altra creatura
aveva instaurato
nel corso dei suoi anni
un magico legame
che molti non comprendevano
ma che le fu fatale.
Sorridendo
canticchiava
quando
dal suo amato bosco
alla dimora ritornava
il buio
intanto intorno
nel
giorno s’infiltrava
mentre
gli abbondanti frutti
dalla
veste a mo’ di conca
correndo
pensierosa
sulla
strada seminava.
Aveva fatto tardi
e l’ora era ormai giunta
di andare a riposare
prima che il giorno ritornasse
coi suoi gravosi affanni.
Posò
la frutta ai cesti
e
lesta andò a dormire
ma
quando il sonno
si
fece dolce sogno
fu
subito svegliata
da grida
spaventose
e pianti
soffocati.
E intanto il cuore suo
di botto le pareva
di perdere dal petto
impazzito martellava
e non voleva smettere.
Con gli
occhi attraversati
da
lampi di terrore
il vecchio genitore
irrompeva
nella stanza
spingendola
di fuori
sul
carro nella stalla.
La sera
che solo poco prima
splendida faceva culla
a stelle e a grilli canterini
si tramutò in inferno
mentre urla e lampi interpretavano
il canto disumano
della signora nera.
E il
tempo
s’arrestò
così sulla paura
e
intanto tutt’ intorno
la
vita lottava con la morte
materializzando
leggende paurose
che
gli anziani narravano di notte.
Pianti disperati
che le spaccavano la mente
come le voci stridule
che urlavano l’oscura lingua
che d’improvviso le fu
pericolosamente accanto.
Impietrita
la donzella
sentì
muovere il carretto
ma
non osò guardare
limitandosi
a nascondersi
tra stracci
polverosi e il fieno
che intorno
a sé trovava.
Ma quando il forestiero
s’ arrestò improvvisamente
ardita la fanciulla
in cerca di un rifugio
in un lampo saltò giù.
Fortuna
volle che
il
bosco fosse proprio accanto
complice
e amico vero
le diede
il suo sostegno.
E mentre lei correva
più veloce di una lepre
sentiva alle sue spalle
incomprensibili parole
che parevano acchiapparla.
Infatti
poco dopo
i
bruti la raggiunsero
ma
lei riuscì a scappare
e
nonostante i due
coi rinforzi raddoppiarono
il
bosco la coprì
e nessuno
più la vide.
In quel silenzio insano
esausta precipitò
nel sonno che allontana
ma quando si svegliò
piangendo disperata
pensò alla sua famiglia
e mentre rifletteva
su cosa era meglio fare
intanto camminava
e al borgo ritornava.
Non
un solo gemito
arrivava
dalle mura
che
mai come in quel momento
facevano
così tanta paura
ma quando varcò l’arco
che al borgo conduceva
la vista s’offuscò di gocce
sulle spoglie martoriate
che giacevano a casaccio
lungo la rossa polvere
ai margini delle strade.
D’un
tratto la sua voce
sentì
che urlava la sua pena
mentre
correndo disperata
cercava
i suoi amati
ma non trovò nessuno
nemmeno i loro corpi
e ritornò nel bosco
col cuore nelle mani.
Quando
durò il tempo
del
suo vivere selvaggio
nessuno
mai lo seppe
ma di
certo fino a quando
il bello
e forte principe
dell’
Ardea lì vicina
durante
una battuta
si
spinse su una preda.
Infatti a quanto pare
un rovo o un ramo secco
davanti al suo destriero
gli fece perdere il cinghiale
e mentre i suoi amici
lo burlavano ridendo
il principe incrociò
la donzella spaurita.
Un
po’ perché d’indole gentile
un
po’ perché la trovava bella
fatto
sta che il giovane
le
porse la sua mano
ma lei con un balzo a terra
si diede alla gran fuga
e siccome il bosco
era amico per davvero
i cespugli grandi mise
per rallentar la corsa
avvicinando in tale modo
il nobile straniero.
Quando
in quegli occhi belli
lesse
la paura che albergava
non
perse tempo il principe
a
mostrare il vuoto delle mani
ma lei non gli diede credito
e guardandosi intorno
acchiappò un frutto grosso
e glielo tirò addosso.
La
mira non era scelta
e lui
afferrò il pomo
e
mentre rideva divertito
gli
diede pure un morso.
Interdetta la fanciulla
non sapeva più cosa pensare
forse non era l’uomo nero
che aveva temuto d’incontrare
e intanto
intorno a sé
l’aria
si colmava
di una
dolce melodia
che dopo
tanto tempo
a lei
si rivolgeva:
“Buon giorno dolce donzella
sono il principe del paese qua vicino
posso avere l’onore
di venire a conoscenza
del vostro meraviglioso nome?”
Confusa
la giovanetta
non
sapeva cosa dire
troppo
era stato il tempo
che aveva
dialogato solamente
con
la natura madre
“Non lo so…”
rispose un po’ smarrita
mentre più di un fil di voce
dalla sua vermiglia bocca
proprio non usciva.
Ma
adesso era il principe
ad
essere perplesso
e associando
i fatti
al
desiderio del suo cuore
decise
in quel momento
di
chiamarla Pometina
e non ci volle molto
tra sorrisi e angeliche parole
a convincere la donzella
a seguirlo nel suo regno.
E non fu nemmeno strano
che di lì a qualche giorno
il rampollo s’innamorò perdutamente
della gentile creatura
che era forte e bella
di sicuro come nessuna.
E fu così che Pometina
che sempre era stata buona
e gentile in ogni circostanza
da regina del bosco quale
era
diventò regina per davvero.
E tante furono le stagioni
che videro il suo amabile sorriso
fin quando ormai anziana e stanca
chiese al principe consorte
di andare per sempre a riposare
tra il verde del suo bosco.
Narra la storia infatti
che sulla terra che la coprì
di lì a qualche tempo
spuntò un tenero germoglio
che presto si fece albero
di dolci e succosi frutti
capaci di sfamare
chi gli passava sotto.
E tanti furono i viandanti
che da quel dì
sotto alla sua ombra
trovarono nutrimento
Amore
e tanta
tanta frescura.
tiziana mignosa
giugno duemilaundici